Per capire quanto sia cruciale il tema “privacy e minori” basterebbe considerare un dato: le persone che, nel mondo, si connettono a Internet ogni giorno sono più di un miliardo e, di queste, una su tre è un bambino. “Una percentuale significativa”, osserva Guido Scorza, giurista e attuale componente del Collegio del Garante per la protezione dei dati personali, con il quale abbiamo dialogato su questo delicato argomento.
In questa percentuale già così alta rientrano bambini e/o ragazzi che frequentano siti, piattaforme e app riservate a un pubblico più adulto (lo sbarramento più diffuso per l’accesso è fissato generalmente a 13 anni, anche se è molto facile aggirarlo), ma la cifra non tiene conto di altri minori, ossia quelli le cui immagini e storie(s) vengono più o meno regolarmente diffuse da genitori, parenti e amici online, senza alcuna forma di controllo da parte dei diretti interessati (spesso perché troppo piccoli per averne la capacità, si pensi ai neonati).
Per i legislatori – e, maggiormente, per i professionisti forensi - si tratta di un tema tutt’altro che secondario, che anzi è destinato a diventare sempre più rilevante, visto che questi bambini nati letteralmente “su” Internet – e non più “con” Internet - stanno diventando grandi e vanno man a mano ad acquisire consapevolezza della loro intimità violata (oltre che capacità giuridica, fissata a 18 anni dall’art. 2 del Codice civile).
“Lo sharenting – ossia la sovraesposizione social che gli adulti fanno a danno del minore – è un fenomeno ormai esploso e fuori controllo”, commenta Scorza. “Quello che ora comincia a verificarsi è che i figli o nipoti di turno, il cui primo bagnetto era finito nel 2009 su Facebook, iniziano ad avere 13, 14 o 15 anni, sono ormai individui in grado di formarsi un’opinione, e magari non sono così entusiasti all’idea che tutti possano trovare le loro foto col viso imbrattato di gelato su di un social”.
A dispetto di molti adulti, infatti, questi ragazzi(ni) sanno che la presenza digitale ha un peso rilevante, e dimostrano una maggiore sensibilità circa l’impatto che la condivisione e diffusione sui social delle proprie immagini personali può avere nella vita (si pensi al rapporto con insegnanti e compagni di scuola nel breve termine o alla ricerca di un lavoro nel futuro). “Per questo motivo, molti di loro non vogliono più subire l’imposizione della condivisione da parte di un adulto e agiscono nei confronti di essi per chiedere la rimozione di determinati contenuti”. Sebbene in Italia questa tendenza non sia ancora così diffusa, negli Stati Uniti i casi di questo tipo si moltiplicano. “All’inizio tali denunce avevano un carattere soprattutto risarcitorio”, segnala Scorza, “mentre oggi, più che chiedere i danni, si ordina la rimozione dei contenuti, richiesta che viene quasi sempre accolta dal giudice”.
L’avvocato Scorza è comunque sicuro che anche in Italia le istanze di rimozione da parte degli (ex) minori siano destinate a crescere: “I bambini le cui prime foto sono state diffuse in rete iniziano ora a diventare maggiorenni e, giustamente, chiedono di avere il diritto di controllare la loro reputazione digitale”.
Intanto, sempre più frequenti diventano (anche) le cause tra adulti per violazione della privacy di un minore, come quella che nell’ottobre scorso ha portato il Tribunale di Rieti a emettere una sentenza di condanna nei confronti di una zia di due gemelli di sei anni, chiamata a risarcire con 5mila euro il padre di questi, che l’aveva citata in giudizio per aver condiviso le immagini dei figli senza il suo consenso (sentenza 443 pubblicata il 17 ottobre 2022 e consultabile in One LEGALE: lo strumento indispensabile per il reperimento della giurisprudenza che grazie a modalità di ricerca intelligenti e funzionalità evolute rende più veloce, semplice e di qualità l’attività giuridica).
“Anche per i reati online”, osserva Scorza, “valgono le norme del Codice penale, che al momento riescono a coprire la quasi totalità dei reati riguardanti anche la giustizia minorile, dalla diffamazione all’accesso abusivo informatico. Ciò che manca, a livello europeo, è una legge sulla age verification: le piattaforme scelgono di far capo alla legge Usa che fissa il limite minimo di accesso a 13 anni, ma senza stabilire alcun divieto sotto i 13 anni e, soprattutto, senza elaborare alcuno strumento per verificare effettivamente l’età del minore”.
Attualmente, l’età minima per esprimere il consenso al trattamento dei propri dati è stata portata in Italia a 14 anni dall’art. 2-quinquies del D.Lgs 101/2018, che ha adeguato il D.Lgs 196/2003 (Codice privacy). Tuttavia, molti giuristi esprimono perplessità sul fatto che tale normativa possa tutelare davvero i minorenni da attività di profilazione commerciale, e che possa coprire decisioni basate sull’incrocio di migliaia di dati raccolti da svariate fonti (navigazione, social network, app. ecc.) e processate da algoritmi. È molto difficile per gli adulti, figurarsi per un minore.