Introdotto al capo I bis del Codice di procedura civile dal decreto legislativo attuativo della Riforma Cartabia (D.lgs 149/2022), il nuovo rito unico in caso di licenziamento realizza l’obiettivo del legislatore di superare la frammentarietà di riti che si era venuta formando dopo la Legge Fornero.
Il decreto delegato sintetizza infatti il duplice interesse di unitarietà del rito e di celerità nella trattazione delle domande di reintegra introducendo, nell’unico rito, un criterio di priorità di trattazione per i procedimenti volti a far ottenere al lavoratore la reintegrazione sul posto di lavoro.
Il nuovo art.441 bis c.p.c. stabilisce dunque che la trattazione e la decisione delle controversie che abbiano ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti nelle quali è proposta domanda di reintegra avranno carattere prioritario rispetto alle altre pendenti sul ruolo del giudice. La trattazione prioritaria è prevista, per espressa volontà del legislatore, anche nel caso in cui alla domanda di impugnazione e reintegrazione si aggiungano questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.
Tutela reintegratoria nei licenziamenti collettivi
Ricadranno nel nuovo rito unico anche quelle controversie in materia di licenziamenti collettivi per violazione dei criteri di scelta che risultano ancora assistite dalla tutela reintegratoria. Sul punto, l’art. 5, comma 3 Legge n. 223/1991 (modificato dalla Legge 92/2012, Legge Fornero) prevede che, quando nel licenziamento siano stati violati i criteri di scelta, la sanzione fissata in via residuale per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 sia ancora quella sancita dall’art. 18, comma 4, Stat. Lav., con una tutela reale “depotenziata” sotto il profilo risarcitorio, dove alla reintegrazione nel posto di lavoro si accompagna, invece del risarcimento del danno, la corresponsione di un’indennità risarcitoria.
Successivamente alla Legge Fornero, il Jobs Act (art. 10, D.Lgs n. 23/2015) ha ulteriormente alleggerito l'impianto sanzionatorio dei licenziamenti collettivi illegittimi, escludendo la possibilità di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 e limitando in questi casi le conseguenze sanzionatorie alla sola tutela indennitaria.
L’andamento delle cause di licenziamento sui criteri di scelta
L’esito delle controversie sui licenziamenti per violazione dei criteri di scelta resta, tuttavia, piuttosto incerto per il lavoratore, come dimostrano anche i risultati della ricerca effettuata con One LEGALE Giurimetria di Wolters Kluwer, la funzionalità di giurisprudenza predittiva che offre un’analisi statistica delle pronunce della Corte di Cassazione sulla base della fattispecie che si sta affrontando, delle parti coinvolte e del ruolo nell’ambito del contenzioso.
Su un campione di 734 sentenze totali della Corte di Cassazione in materia (dati dicembre 2022), infatti, il 46% sono state vinte dal lavoratore, il 31% sono state perse dal lavoratore e, nel restante 23% dei casi, l’esito è stato in sentenze di parziale soccombenza.
Scomponendo il modo più analitico il dato, però, si osserva che quando a proporre il ricorso è stato il lavoratore (278 casi) la soccombenza dello stesso è salita al 73%, con solo 20 vinte dal lavoratore (il 7%). Quando invece il lavoratore era parte resistente nel giudizio, la causa è stata vinta dal lavoratore nel 70% dei casi, è stata persa solo al 5% mentre si è conclusa con una sentenza di parziale soccombenza nel 25% delle ipotesi.
La difficoltà per il lavoratore di questo genere di controversie sta nel fatto che, se il datore di lavoro ha l’onere di provare i criteri di scelta e la loro piena applicazione nei confronti del lavoratore licenziato, incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’illegittimità della predetta scelta.